Il ruolo della sfiducia nel Disturbo Ossessivo Compulsivo

La ricerca dà ampio sostegno al ruolo svolto dalla fiducia nel contribuire sia al benessere che al disagio psicologico. La fiducia in se stessi è un costrutto multidimensionale che include vari elementi fondamentali:

Libertà – Accettazione – Sicurezza – Confidenza interna – Apertura – Consapevolezza – Positività – Controllo

Nello specifico, la fiducia in se stessi implica e deriva da un senso di chiarezza e sicurezza verso la propria esperienza interna. E’ un sentimento che ci permette di lasciar andare il tentativo di controllare le nostre azioni o gli eventi che viviamo e di accettare l’inevitabile incertezza degli esiti e delle conseguenze di tali azioni ed eventi. Questa incertezza si riferisce al potenziale rischio di fallimento o danno implicato in qualsiasi cosa facciamo o sperimentiamo.

Un sentimento di fiducia sano o maturo è ciò che possiamo chiamare fiducia reale. La fiducia reale è un sentimento che, da adulti, non dipende tanto da fattori esterni o da ciò che fanno gli altri, ma soprattutto dalle proprie risorse interne. In generale, gli esseri umani nascono fiduciosi: durante un’infanzia normale e non traumatica siamo fiduciosi per natura perché, per imparare a conoscere la vita, usiamo principalmente i nostri sensi e non la nostra mente.

Il disturbo ossessivo viene chiamato il disturbo della fiducia perché si basa sulla credenza disfunzionale che nella vita si può e di dovrebbe raggiungere il controllo totale, la certezza o la perfezione in ogni cosa si faccia o si sperimenti, o che si può e si dovrebbe evitare qualsiasi danno o rischio per se stessi o per gli altri.

Il movimento dell’ossessivo, di cercare di raggiungere il controllo completo e il perfezionismo, genera, dal punto di vista cognitivo, un rimuginio costante basato sull’evitamento del danno (schema della vulnerabilità al pericolo e alle malattie), e dal punto di vista comportamentale varie azioni (compulsioni) atte ad alleviare l’ansia e lo stato di allerta dato dal pensiero controllante ossessivo.

Riconosciamo perciò almeno due forme specifiche di sfiducia nel disturbo ossessivo-compulsivo (oltre alla generale sfiducia nel futuro – schema di negatività/pessimismo):

  • Sfiducia nella memoria;
  • Sfiducia nella percezione e nell’attenzione.

Per quanto riguarda la sfiducia nella memoria, in particolare i soggetti checker (coloro che controllano che tutto sia a posto), presentano una forte sfiducia nella loro memoria, soprattutto la memoria delle loro azioni; inoltre, sono poco convinti della vividezza dei loro ricordi: questa mancanza di fiducia nella loro funzione mnestica porta inevitabilmente al dubbio patologico.

Questi fenomeni paiono accadere essenzialmente perché le persone ossessive non riescono a focalizzare l’attenzione e a stare nel presente a causa dello stato di allerta dato dalla generalizzazione degli stimoli fobigeni.

Dal punto di vista neuroanatomico i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo mostrano delle alterazioni funzionali del network fronto-sottocorticale e un aumento di interazione tra le regioni ventrostriatali e la corteccia orbito frontale mediale, la frontale anteriore, il cingolato anteriore e le regioni paraippocampali. Queste aree sono attivate da due vie: una diretta e una indiretta, e normalmente si bilanciano, ma nel DOC è presente uno sbilanciamento causato dall’iperfunzionamento della via diretta che causa un aumento dell’attività del circuito e delle strutture ad esso correlate. Questa iperattività potrebbe essere dovuta ad un’eccessiva attivazione della corteccia orbito-frontale, che determina un maggior controllo dello striato, ovvero mancanza di inibizione dei pensieri interferenti. Anche il sistema limbico e l’amigdala si attivano, poiché si registra una risposta emotiva di paura e ansia condizionate come reazione ai pensieri disturbanti. Quando si mettono in atto comportamenti compulsivi, si attiva il nucleo caudato e la corteccia orbito-frontale che svolge, in questo caso, una funzione inibitoria.

Riferimenti bibliografici:

Fiore F. (2019), Disturbo Ossessivo-Compulsivo: i correlati neuroanatomici, State of Mind;

Didonna F. (2019), Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per il disturbo ossessivo compulsivo, Erickson.

La Personalità Ossessiva

La personalità ossessiva è riconoscibile attraverso un preciso modo di pensare segnato da “rigidità“.

Se prendiamo in esame lo stile di funzionamento, oltre alla rigidità sono fa considerare: il modo di attività e la distorsione dell’esperienza di autonomia e la perdita della realtà.

Rigidità

Con rigidità possiamo riferirci a una postura rigida del corpo, a una tendenza a persistere nel corso di un’azione che è diventata inopportuna; ma soprattutto, la rigidità descrive una modo di pensare. Cosa intendiamo per rigidità nel pensare? Intendiamo che la persona ossessiva pensa per dogmi ed è ostinata. Conversare con una persona ossessiva diventa frustrante perché non si prova né un accordo né un disaccordo a causa di un mancato incontro mentale: si ha l’impressione di non essere ascoltati, ma di ricevere soltanto un’ “attenzione meccanica”. Tali personalità diventano in questo modo refrattarie e ininfluenzabili. Al contrario, la persona normale presenta flessibilità cognitiva, cioè una mobilità di attenzione, una mobilità volizionale dell’attenzione.

La caratteristica più saliente dell’attenzione dell’ossessivo è la sua messa a fuoco intensa, penetrante. Queste persone non hanno un’attenzione vagante; si concentrano, e in particolare si concentrano sui dettagli. Ma questa attenzione, benché acuta, è per certi aspetti segnatamente limitata sia nella mobilità sia nell’estensione.

Modo di attività e la distorsione generale dell’esperienza di autonomia

Se nello stile istrionico l’esperienza affettiva domina l’esistenza dell’individuo, nello stile ossessivo l’esperienza affettiva nel suo complesso si contrae: è nella natura di questo stile che la vita si imperni sull’attività lavorativa e su alcuni tipi di esperienza soggettiva che vi si associano. L’attività di queste persone è caratterizzata da un senso di sforzo e di prova. La qualità di sforzo è presente in ogni attività, che metta alla prova le sue capacità oppure no. O meglio, sembra che ogni attività venga svolta come se dovesse mettere alla prova le sue capacità. La persona ossessiva cerca di “divertirsi” nel gioco con l’identico sforzo che impiega per svolgere il suo lavoro ed essere produttiva.

Possiamo descrivere l’attività dell’ossessivo come imposta, cioè appare davvero come motivata da qualcosa al di fuori dell’interesse della persona che agisce: sente come se fosse costretto da qualche necessità o esigenza cui si sforza di ottemperare. In realtà, egli è davvero costretto da tale necessità o esigenza, ma non è un’esigenza esterna: è un’esigenza e una pressione che egli stesso si impone.

Così, queste persone spesso si impongono per varie attività dei confini da non superare, confini che possono essere assolutamente illogici o arbitrari.

Se vogliamo caratterizzare l’attività dell’ossessivo come imposta, allora dobbiamo anche caratterizzare lui stesso come l’impositore. Egli non solo soffre sotto la pressione delle scadenze da non superare, ma anche le pone. E non le pone soltanto, ma ricorda a se stesso, incessantemente, la loro esistenza e prossimità. Egli non si lamenterà mai di questo aspetto del suo comportamento (egosintonia), né lo riterrà anormale. Sebbene da un punto di vista obiettivo questo atteggiamento sia centrale per il processo cognitivo dell’ossessivo, dal suo punto di vista è dettato soltanto dal buon senso. Egli non si lamenterà dell’esperienza della pressione stessa.

E’ un modo di attività in cui l’individuo esercita una pressione più o meno continua su di sé, mentre al tempo stesso vive e lavora nella tensione di quella pressione. L’ossessivo funziona come un ispettore di se stesso che impartisce ordini, direttive, sollecitazioni, avvertimenti e ammonizioni che riguardano non solo quello che dev’essere fatto e quello che non dev’essere fatto, ma anche quello che dev’essere voluto, sentito e perfino pensato.

Quindi, questo modo di attività e di esperienza riflette una notevole distorsione della normale funzione di esperienza di volontà o volizione. Nella sua psicologia, l’autodirezione è distorta nel suo normale significato di scelta volontaria e di azione deliberata; essa ha invece lo scopo di dirigere consapevolmente ogni azione, di esercitare, come un ispettore appunto, una pressione di volontà e una direzione su se stesso continue, e perfino, egli si sforza di dirigere le proprie esigenze ed emozioni a volontà. In questo senso, l’impulso e il bisogno non sono il motore di una direttività e di uno sforzo volontario, bensì il suo nemico. Quindi per queste persone, ampiamente sganciate dai loro bisogni, il desiderio (wish), interferisce con quel che essi sentono di “dover” voler fare.

Per l’ossessivo, inoltre, è importante avere una continua consapevolezza di essere in un modo piuttosto che in un altro (self-image). Questo tipo di autoscoscienza e insieme questo interesse di stabilire il proprio ruolo sono un passo fondamentale nella trasformazione di intere aree di vita nel suo tipico modo. Il ruolo diventa una direttiva generale di comportamento, direttiva che spesso è capace di includere perfino i dettagli delle espressioni facciali, dei modi di parlare e simili.

Ancora, quel che distingue gli ossessivi di fronte a una presa di decisione non sono i loro sentimenti confusi, ma piuttosto il fatto che questi sentimenti sono sempre così meravigliosamente e perfettamente bilanciati. Quando si trova di fronte alla necessità di prendere una decisione, anche se insignificante, è tipico dell’ossessivo tentare di giungere a una soluzione invocando qualche regola, qualche principio o esigenza esterna che forse potrebbe fornire una “giusta” risposta. In altre parole, egli cerca qualche mezzo mediante il quale il processo di decision making possa adeguarsi al suo modo di funzionamento consueto.

La perdita della realtà

A volte, gli ossessivi si preoccupano per cose che sono non solo improbabili ma oltremodo assurde. Le loro preoccupazioni possono essere tanto bizzarre da apparire al limite del delirio (ricordiamo la diagnosi differenziale con la psicosi). Anche se si ammettessero tutti i motivi che l’ossessivo può avere per preoccuparsi, la sua credenza appare delirante (vedasi ipocondria o ansia connessa allo stato di salute). Il problema è che egli si comporta “come se” questa credenza fosse reale (esperienza della convinzione).

Riferimenti bibliografici:

SHAPIRO, D. (1965). Neurotic Styles, Basic Books, Inc. New York. Trad. it., Stili Nevrotici, Roma: Astrolabio, 1969.

Attacchi di Panico: Cosa sono e come superarli

Cosa è un attacco di panico?

Un attacco di panico consiste nella comparsa improvvisa di paura o disagio intensi che raggiunge il picco in pochi minuti, periodo durante il quale si verificano quattro o più dei seguenti sintomi (APA, 2013):

Palpitazioni/Tachicardia, sudorazione, tremori/scosse, dispnea o senso di soffocamento, dolore o fastidio al petto, nausea, sensazioni di vertigine/testa leggera/svenimento, brividi/vampate di calore, parestesie/formicolio, derealizzazione/depersonalizzazione, paura di perdere il controllo/di impazzire, paura di morire.

Un attacco di panico può capitare a tutti nel corso della vita e, di solito, è associato a un periodo di stress o ansia intensi, ma il disturbo di panico interessa tutte quelle persone che manifestano più attacchi nel corso di 1 mese, anche di varia intensità, e che si accompagnano a una preoccupazione persistente per l’insorgere di altri attacchi o per le loro conseguenze; inoltre, si riscontra una significativa alterazione disadattiva del comportamento correlata agli attacchi.

Cosa avviene nel cervello?

Quando le persone vivono una situazione di stress prolungato che può derivare dalla perdita del lavoro, da una separazione, da un lutto o da altri problemi, la loro respirazione tende a diventare molto rapida. Quando la frequenza respiratoria aumenta, ci si rende conto di non essere in grado di riprendere fiato e si avverte una sensazione di mancanza d’aria: questa è una sensazione che crea molta ansia. In alcuni casi vi è la percezione di perdere il controllo, poiché quando la persona iperventila, si ha un aumento eccessivo di ossigeno e una riduzione di anidride carbonica nel sangue. Quando il corpo percepisce questa riduzione di anidride carbonica, automaticamente genera un insieme di sintomi fisiologici molto simili all’attacco di panico. Nel momento in cui la persona inizia ad avvertire un giramento di testa a un formicolio alle estremità o tachicardia, ha la tendenza a respirare ancora più rapidamente.

Dopo aver subito il primo attacco di panico la persona, consapevole del suo disturbo, spesso inizia a sviluppare la “paura della paura“, cioè incomincia a pensare che potrebbe averne un altro e, quindi, a vivere in uno stato costante di allarme.

Dal punto di vista neurofisiologico, l’amigdala, (individuata come sede della paura), inizia a sensibilizzarsi quando la persona prova per la prima volta l’attacco di panico, in qualsiasi situazione o luogo. Il cervello registra la sintomatologia presentata dalla persona e il luogo come “potenzialmente pericolosi”, portando la persona a mettere una atto dei comportamenti protettivi e degli evitamenti per non trovarsi nella stessa situazione.

Quello che poi accade è che l’amigdala si sensibilizza ulteriormente, generalizzando gli stimoli fobigeni ad altri (cioè partendo per esempio da uno spazio chiuso come un ristorante, a tutti gli spazi chiusi: cinema, supermercati, ecc.).

Si mischiano così la paura della paura con l’agorafobia, rendendo la vita difficile per la persona.

Mentre un attacco di panico può capitare a tutti, perché, come abbiamo visto, è dovuto a un forte stress di vita, una serie di attacchi di panico o un disturbo di panico presuppongono una mal interpretazione di segni fisici. Sentire il cuore che batte diventa tachicardia e quindi un infarto; alzarsi velocemente dal divano con un leggero mancamento diventa senso di svenimento con paura di perdere il controllo e di stare male. Infatti, in comorbidità con il disturbo di panico troviamo, molto frequentemente l’ansia connessa allo stato di salute (ipocondria) e disturbi ossessivi.

Cosa fare per superarli?

Innanzitutto rivolgersi a uno psicoterapeuta. Le linee guida internazionali come APA, NIMH e NICE prediligono la psicoterapia cognitivo comportamentale per questo disturbo, poiché è accompagnata da una forte letteratura scientifica di efficacia.

Di solito un protocollo per gli attacchi di panico presuppone una psicoeducazione, una esposizione enterocettiva e una esposizione graduale in vivo/in immaginazione oppure una desensibilizzazione sistematica per trattare l’agorafobia che è fortemente associata a questo disturbo.

Se il disturbo di panico persiste da molto tempo è necessaria una valutazione clinica a più ampio spettro, per indagare la presenza di altri disturbi, e una valutazione rigorosa della personalità, che sostiene la sintomatologia.

Riferimenti bibliografici:

APA (2013). Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali DSM-5. Milano: Raffaello Cortina.

Rolla E. (2017). Attacchi di Panico. Come uscirne. La potenza della terapia cognitivo comportamentale. Torino: IW.

Discontrollo emotivo e comportamenti borderline

Quasi tutti i comportamenti vengono influenzati dall’attività emotiva e dallo stato affettivo.

Molti comportamenti caratteristici dei pazienti borderline possono essere interpretati sia come tentativi, da parte del soggetto, di modulare e gestire i propri stati affetti più intensi, sia come dirette conseguenze dell’alterazione dei meccanismi di regolazione emotiva.

La disregolazione emotiva costituisce uno dei problemi principali che il paziente è chiamato a gestire insieme al deficit di integrazione. Entrambi questi fattori vanno a incidere sugli stati mentali dolorosi e sulle strategie di fronteggiamento di questi stati, facendo transitare il paziente, in maniera repentina, incoerente e inconsapevole, in parti della personalità differenti.

A quali “comportamenti borderline” è associata la disregolazione emotiva?

Ai comportamenti impulsivi. Tali comportamenti rappresentano il tentativo di gestire i propri stati emotivi: uso di sostanze e dipendenze in genere, abbuffate, shopping compulsivo, sessualità operatoria promiscua o pericolosa, guida spericolata sono tutti comportamenti che vengono emessi dal soggetto per cercare di regolare gli stati interni dolorosi, come vissuti di abbandono, solitudine, ingiustizia, ecc. Sono i comportamenti che per primi devono essere ridotti in terapia, e che interferiscono in maniera significativa addirittura con la sopravvivenza del soggetto.

Ai disturbi dell’identità. Le persone con modalità borderline presentano una diffusione dell’identità, in quanto probabilmente nella vita di queste persone è mancata coerenza, continuità e prevedibilità delle persone significative e di conseguenza del loro senso identitario. L’incoerenza e la discontinuità profuse nel tempo non permettono a questi soggetti di sapere cosa preferire e chi/cosa amare in maniera stabile. Non riescono ad sentire una coerenza interna della propria storia che li definisca in maniera soggettiva.

Alle difficoltà nelle relazioni interpersonali. Il disturbo dell’identità va di pari passo alla discontinuità nelle relazioni. I pazienti borderline sperimentano nella propria vita alti e bassi estremi nelle relazioni con persone significative, non riuscendo a esprimere spontaneamente le proprie emozioni. La precarietà dei rapporti interpersonali è data dalla mancata regolazione di emozioni, soprattutto dalla rabbia, e dall’espressione chiara dei propri sentimenti. L’incoerenza identitaria e i vari schemi di abbandono/instabilità, deprivazione emotiva ed esclusione sociale permeano l’atteggiamento del paziente di ambivalenza e ambiguità.

E’ da segnalare che tutti questi meccanismi quando attivi non sono consapevoli per il soggetto; “a freddo”, quando il paziente entra in uno stato funzionale o di “mente saggia”, alcune componenti vengono riconosciute, ma, solitamente, non sono presenti risorse necessarie ed efficaci per motivare la persona a emettere comportamenti differenti dai sopracitati, ed anche perché il riconoscimento delle proprie disfunzioni, spesso fa transitare nuovamente il paziente in stati dolorosi che confermano a loro volta il fallimento nel condurre la propria vita.

Riferimenti bibliografici:

  • Linehan, M. (1993). Introduzione alla DBT, Raffaello Cortina.
  • Semerari, A., Dimaggio, G. (2003). I disturbi di personalità, Laterza.
  • Young, J. (2003). Schema Therapy, Eclipsi.

Come Trovare dei Potenziali Amici

Trovare le persone giuste e fare in modo di piacere loro è il primo passo da fare per diminuire il senso di isolamento e di solitudine. È molto importante quando ci trasferiamo in una nuova zona, iniziamo un nuovo lavoro o entriamo a far parte di un nuovo gruppo.

Perché trovare degli amici?

Avere degli amici è essenziale per essere felici, e tutti gli esseri umani possono trovare qualcuno che li ama. Gli umani sono animali sociali e restano in vita grazie alla riproduzione, alla nutrizione e all’appartenenza a gruppi. L’affiliazione ad un gruppo è infatti associata a un maggior benessere generale, migliore salute mentale, e migliori abilità di comunicazione e di gestione delle emozioni.

La prossimità e la somiglianza favoriscono l’amicizia

Dobbiamo cercare le occasioni per entrare in contatto in modo casuale ma regolare con altre persone nel nostro ambiente quotidiano. La ricerca ci dice che facciamo amicizia con le persone che vediamo più spesso (Festinger et al., 1950), per esempio, gli studenti tendono a fare amicizia più facilmente con le persone che si siedono accanto a loro.

Un altro aspetto importante è che ci si deve avvicinare a persone che hanno una mentalità simile alla nostra, perché questo aumenta i punti di contatto e di condivisione tra due interlocutori.

Abilità pratiche di conversazione

La ricerca ci suggerisce anche che le persone che vengono considerate “abili conversatori” fanno molte domande, danno un feedback positivo e sono capaci di delimitare autonomamente la loro parte di conversazione.

  • Fai domande e rispondi alle domane;
  • Parla di cose ordinarie;
  • Parla di aspetti personali ma non troppo (dire troppo o troppo poco di sé tende ad avere un effetto negativo sulla relazione) (Cozby, 1972);
  • Non interrompere la conversazione;
  • Impara gli argomenti di cui potresti parlare;
  • Non fare commenti su caratteristiche ovvie o inesistenti;
  • Non elogiare tutti per caratteristiche simili;

Se aspettiamo che siano gli altri a venirci a cercare, potremmo non farci mai degli amici. A volte, dobbiamo essere noi a fare il primo passo per trovare degli amici e, per farlo, dobbiamo trovare dei nuovi gruppi di persone a cui unirci.

Le abilità importanti che dobbiamo possedere per unirci a un gruppo di conversazioni sono due: dobbiamo sapere come riconoscere se il gruppo di persone impegnate nella conversazione è un gruppo aperto o chiuso a nuovi partecipanti. In secondo luogo, dobbiamo sapere come unirci alla conversazione.

Caratteristiche dei gruppi aperti:

  • I partecipanti stanno tutti a una certa distanza l’un l’altro;
  • I partecipanti di tanto in tanto danno un’occhiata all’ambiente circostante;
  • Ci sono dei momenti di vuoto nella conversazione;
  • L’argomento di conversazione è di interesse generale.

Il modo migliore per unirsi a un gruppo di conversazione consiste nell’aspettare un momento di vuoto  nella conversazione, avvicinarsi o mettersi a fianco di un membro del gruppo dal fare amichevole e chiedere di unirsi.

Riferimenti bibliografici:

  • Cozby, P.C. (1972). Self-disclosure, reciprocity, and liking. In Sociometry, 35, pp. 151-160.
  • Festinger, L., Schachter, S., Back, K. (1950). Social pressures in informal groups: a study of human factors in housing. Stanford University Press: Stanford.
  • Linehan, M.M., Egan, K.J. (1985). Asserting yourself. Facts on file. New York.

Ambienti invalidanti e psicopatologia

Un ambiente viene definito invalidante quando alle comunicazione delle proprie esperienze interne, seguono risposte estreme, inappropriate e imprevedibilmente variabili.

In un ambiente invalidante l’espressione dei propri stati interni non solo non è validata né riconosciuta, ma è spesso punita o banalizzata. Va da sè che gli affetti dolori del soggetto e i fattori che egli identifica come cause del proprio stato emotivo vengono di regola trascurati o ignorati: il modo in cui l’individuo interpreta il proprio comportamento, comprese le intenzioni e le motivazioni soggettive che ne sono all’origine, non viene considerato.

In questo contesto vogliamo mettere in evidenza gli effetti che un caregiver invalidante produce sul bambino in crescita, ma le stesse considerazioni valgono quando la personalità del soggetto è già formata, ed anche nel caso di partner invalidanti.

L’ambiente invalidante ha due principali caratteristiche:

  1. disconferma l’individuo nel suo modo di descrivere, analizzare e rappresentarsi il proprio comportamento, e nelle sue attribuzioni causali rispetto alle proprie convinzioni, emozioni e azioni (quello che stai dicendo non è vero; non l’hai fatto per quel motivo ma per altro; non è vero che ti senti solo, ecc.)
  2. riconduce le esperienze del soggetto a sue caratteristiche o tratti di personalità socialmente inaccettabili (ti senti cosi perché sei pauroso; sei sempre il solito pessimista; non si deve avere paura/tristezza/rabbia).

Tale ambiente invalidante può attribuire all’individuo sentimenti e sensazioni che egli afferma di non provare, connotarlo con desideri e preferenze che egli sente di non avere, o attribuirgli la responsabilità di atti che egli sa di non aver compiuto.

Qua viene un punto molto importante.

L’espressione, da parte del soggetto, di stati interni dolorosi o penosi (come tristezza, angoscia e paura), viene ricondotta a una sua presunta iperattività o ipersensibilità, alla sua paranoia, a una particolare tendenza a distorcere il significato degli eventi e delle situazioni, o alla sua incapacità di assumere un atteggiamento positivo.

Ogni fallimento e ogni deviazione dagli standard che definiscono socialmente il successo vengono interpretati dall’ambiente come le naturali conseguenze della scarsa motivazione dell’individuo, della sua mancanza di disciplina e di volontà di affermarsi, ecc.

Anche l’espressione di emozioni positive e piacevoli, di attitudini, opinioni, idee e progetti può essere invalidata dall’ambiente, se attribuita a un’incapacità di discriminazione, all’inesperienza, all’iperidealizzazione o all’immaturità.

Le esperienze interne e l’espressione delle emozioni dell’individuo non vengono considerate come valide e appropriate risposte alle situazioni e agli eventi.

Gli ambienti invalidanti solitamente non tollerano le manifestazioni di sofferenza, a meno che queste non siano verosimilmente attribuibili a evidenti circostanze causali.

Il concetto di ambiente invalidante o famiglia invalidante ricorda molto quello di ambiente/famiglia ad alta emotività espressa coniato verso la metà degli anni ’80 (Leff, Vaughn, 1985) per descrivere gli ambienti familiari nei quali crescevano futuri psicotici.

Quali sono, in pratica, gli effetti degli ambienti invalidanti?

  • il bambino non può imparare a riconoscere i propri stati interni, comprese le emozioni, né a verbalizzarli secondo le modalità stabilite e riconosciute dal suo ambiente sociale.
  • non può imparare a modulare le proprie risposte emotive.
  • non viene protetto nella sua vulnerabilità infantile.
  • il controllo sulla propria emotività gli viene imposto.
  • deve fare a meno del sostegno, delle attenzioni e degli insegnamenti dei genitori.
  • non può imparare a riconoscere, identificare e controllare adeguatamente le proprie reazioni emotive.
  • non impara a tollerare la frustrazione, né a porsi obiettivi e aspettative realistiche basate sulle sue reali possibilità.
  • sviluppa risposte emotive estreme.
  • oscilla continuamente tra il polo dell’inibizione emotiva e l’eccessiva intensità emotiva.
  • imparerà ad autoinvalidarsi e a invalidare gli altri.

Questo lungo elenco di effetti “a breve termine” sul bambino in crescita saranno poi i fattori predisponenti su cui poggerà la psicopatologia del soggetto che potrebbe manifestarsi in varie forme: disturbi di personalità, psicosi, disturbi dissociativi, disturbi alimentari, dipendenze, disturbi somatici, e altri.

Chiariamo che per sviluppare una psicopatologia, il soggetto, oltre all’esposizione a un ambiente invalidante, deve portare con sé una parte di vulnerabilità biologica: corredo neutrotrasmettitoriale, fattori ereditari e temperamento.

Tali fattori saranno alla base di schemi maladattati che il paziente utilizzerà per cercare di muoversi nel mondo e di sopravvivere; schemi che conterranno sostanzialmente i fattori di mantenimento della sua psicopatologia: pensieri e comportamenti, su cui poi si potrà effettivamente intervenire.

Nei casi più gravi ci sarà da costruire attivamente delle competenze (skills) riferite al monitoraggio dei propri stati interni, alla regolazione emotiva e alla gestione delle relazioni interpersonali (sintomi che testimoniano l’effetto dell’ambiente invalidante).

Obiettivo terapeutico sarà quello di curare l’infanzia infelice (Cancrini, 2013) e potenziare la metacognizione, restituendo all’ex bambino il potere di padroneggiare pensieri, emozioni e comportamenti.

Riferimenti bibliografici:

Linehan, M. (1993). Cognitive-Behavioral Treatment of Borderline Personality Disorder. New York: The Guildfor Press.

Gambini, P. (2016). Psicologia della famiglia. La prospettiva sistemico relazionale. Milano: Franco Angeli.

Cancrini, L. (2013). La cura delle infanzie infelici. Milano: Raffaello Cortina.

Weiss, J. (1999). Come funziona la psicoterapia. Torino: Bollati Boringhieri.

Apertura Radicale e Controllo Flessibile

I problemi nel controllo delle emozioni e degli impulsi possono comportare difficoltà sia di ipocontrollo (disinibizione) sia di ipercontrollo (rigida inibizione) e i problemi interpersonali possono comprendere sia relazioni caotiche/rabbiose/intense (ipocontrollo) sia relazioni distaccate/fredde/prudenti (ipercontrollo).

Con questa affermazione quindi stiamo dicendo che è un problema gestire le emozioni non solo quando sono di intensità e di frequenza elevata, ma anche quando esse sono inibite per qualche motivo dovuto al controllo.

Gli aspetti centrali nelle persone ipercontrollate sono:

  • forte desiderio di controllare il proprio ambiente;
  • espressione emotiva contenuta;
  • interazione sociale limitata e problemi nelle relazioni strette;
  • rigidità cognitiva e comportamentale.

Definiamo l’ipercontrollo come la confluenza di tre forze temperamenti e ambientali: elevata sensibilità alla minaccia, bassa sensibilità alla ricompensa e pressioni familiari/ambientali salienti.

Abbiamo fatto questa premessa per aiutare a identificare i fattori che sono alla base delle persone che hanno come tema caro della loro vita il controllo.

Il contributo scientifico dietro queste righe è dato dalla Terapia Dialettico Comportamentale (Linehan) che è stata ideata per il Disturbo Borderline di Personalità che è un disturbo di persone disregolate emotivamente. Lo stesso approccio recentemente è stato sviluppato da Lynch e collaboratori per aiutare le persone che invece presentavano il problema opposto (RO DBT).

Partiamo dal presupposto che il benessere emotivo coinvolga tre elementi o capacità sovrapposte:

APERTURA

FLESSIBILITA’

CONNESSIONE SOCIALE

L’espressione APERTURA RADICALE rappresenta la confluenza di queste tre caratteristiche fondamentali.

Come stato mentale, l’apertura radicale comporta la volontà di abbandonare i preconcetti su come il mondo dovrebbe essere al fine di adattarsi a un ambiente in continua evoluzione.

L’apertura radicale postula che non siamo in grado di vedere le cose come sono, bensì vediamo le cose come siamo (Lynch, 2017). Da questo punto di vista, fatti o verità spesso possono essere fuorvianti, in parte perchè non sappiamo ciò che non sappiamo dato che le cose sono in costante evoluzione e c’è una grande quantità di esperienze che si verificano al di fuori della nostra consapevolezza cosciente.

Così l’apertura radicale richiede la disponibilità a mettere in dubbio le nostre convinzioni o intuizioni interiori senza cadere a pezzi o darsi irrazionalmente per vinti. Piuttosto che cercare serenità, saggezza o un senso di pace, l’apertura radicale incoraggia l’indagine di sé riguardo ai pattern di risposta abituali e una disponibilità a rivelare agli altri cosa abbiamo scoperto.

Riferimenti bibliografici:

Lynch, T.R. et al., (2016). Promuovere l’apertura radicale e il controllo flessibile. In Livesley et al. (a cura di), Trattamento integrato per i disturbi di personalità. Un approccio modulare. Trad it. 2017. Milano: Raffaello Cortina

Lo Schema della Sottomissione e dell’Autosacrificio

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Il mondo in cui viviamo è condizionato dal problema del controllo. Le persone che esperiscono lo schema della sottomissione hanno la percezione che siano altre persone della loro vita a comandare: si sentono dominati dalle persone che gli stanno vicino. Alla base della sottomissione c’è la convinzione di dover compiacere gli altri, come genitori, fratelli, amici, insegnanti, colleghi, superiori, ecc., tranne sé stessi.

La sensazione della sottomissione è gravosa poiché implica il soddisfacimento continuo delle esigenze degli altri, che è ovviamente una responsabilità troppo grande ed estenuante. La vita perde così gran parte delle gioie e delle libertà personali. Al centro dell’attenzione del soggetto sottomesso non c’è ciò che vuole e sente lui, ma ciò che vogliono gli altri affinché siano felici di lui o con lui.
Essere sempre attenti e concentrati sui bisogni degli altri toglie comprensione ed anche consapevolezza ai desideri e bisogni propri, portando di fatto passività.
Le persone con una tendenza alla sottomissione ritengono di essere soggetti con cui “si può andare sempre d’accordo” e che possono “essere utili agli altri”. Questo schema riduce l’autostima, ci si sente come non avere dei diritti legittimi rispetto agli altri.

Esistono due tipi di sottomissione:
Autosacrificio (sottomissione legata al senso di colpa);
Remissività (sottomissione legata alla paura).

Autosacrificio. Le persone con questo schema si sentono responsabili del benessere degli altri; sono eccessivamente empatiche: sentono la sofferenza degli altri e vorrebbero alleviarla. È una sottomissione volontaria.
Questa trappola attinge la sua forza principalmente dal senso di colpa. Ci si sente in colpa ogni volta che si antepone se stessi agli altri, o se non riesce ad alleviare la sofferenza di qualcuno o ad aiutarlo in qualche modo.
Il sacrificio di sé presupponte la doverizzazione nell’aiutare gli altri. Vengono alimentate e rinforzate credenze quali “se qualcuno mi chiede un aiuto glielo devo dare”, oppure “non posso dire di no”, ecc. si tratta della classica sindrome da crocerossina/o: provate attrazione per i più deboli o per chi vi chiede aiuto.

Remissività. Questa tipologia ti sottomissione assume che si attribuisca agli altri più potere di quanto abbiano. Probabilmente chi ha questo schema è stato sottomesso da piccolo, oppure umiliato, od ancora non gli è stato permesso di esprimere i propri bisogni, opinioni od emozioni. Allora la sottomissione è stata adattiva e funzionale per il bambino perché gli ha permesso di sopravvivere, ma adesso è inattuale e crea disturbo nella vita della persona, soprattutto a livello emotivo e relazionale.

Comune denominatore di queste due tipologie di sottomissione è il ruolo della rabbia. Il fatto di sentirsi schiacciati da una moltitudine di sentimenti ed emozioni intensi che derivano sostanzialmente dalla non-soddisfazione dei propri bisogni personali (soprattutto emotivi) porta il soggetto a covare rabbia e ad esprimerla (eccezionalmente) in maniera inadeguata: con scoppi di rabbia, acting, od ancora in maniera passiva attraverso sotterfugi verbali, bullismo indiretto, ecc. Ad alimentare questo modo disfunzionale di esprimere la rabbia ci sono diverse credenze non adattive come avere l’opinione che sia pericoloso e sbagliato manifestare agli altri la rabbia, ed ancora che la rabbia si possa manifestare solo in maniera distruttiva e non in maniera adeguata al contesto e secondo una scala di intensità (per esempio da 0 a 100, e non sempre la rabbia sarà 100, ma dipenderà dal significato che il soggetto attribuisce all’evento o allo stimolo).

Come posso cambiare lo schema della sottomissione?
Ecco qui di seguito alcuni passi che compiamo insieme ai pazienti in terapia:

  1. Andare all’origine: esplorare i ricordi associati allo schema. Quando è comparso? Connettersi con il bambino che è stato sottomesso.
  2. Riconoscere le situazioni che nella quotidianità pongono in una situazione di sottomissione, cioè quando si attiva lo schema, e quando vengono sacrificati i propri bisogni per altroColtivare i propri interessi di vita e ciò di cui si ha bisogno.
  3. Riconoscere ciò che si fa per gli altro o che si da agli altri e quello che gli altri fanno per voi.
  4. Riconoscere i propri comportamenti passivo-aggressivi. Sentite la rabbia.
  5. Chiedere a chi vi interessa quello di cui avete bisogno.
  6. Diminuire i contatti con le persone che sono troppo esigenti, che vi chiedono troppo.
  7. Imparare a delegare, dire di no e ad affermare voi stessi essendo assertivi.
  8. Non scegliere partner bisognosi o tirannici perché rinforzano lo schema.

Consigliamo di fare questi passi insieme ad un aiuto esperto. Di solito si affrontano questi schemi con psicoterapeuti cognitivo comportamentali che utilizzano un approccio denominato “schema therapy”.
L’obiettivo della terapia non è snaturare la persona, perché l’intento di aiutare gli altri ed essere solidali con i bisognosi di aiuto è molto bello. Questa vocazione però non deve essere di disturbo alla persona; cioè, l’attenzione ai bisogni degli altri non deve diventare eccessiva, ma soprattutto non deve frustrare i bisogni e i sentimenti delle persone che vorrebbero dare l’aiuto.

Riferimenti bibliografici:
Young, Klosko, Weishaar, (2007), Schema Therapy, Firenze: Eclipsi.
Young, Klosko, (2004), Reinventa la tua vita, Milano: Raffaello Cortina.

 

Le conseguenze del criticismo genitoriale

Family conflict

Il criticismo genitoriale è uno stile relazionale, particolarmente dannoso e fonte di afflizioni importanti per i bambini. Possiamo definire il criticismo genitoriale come un ricorso ripetitivo e pervasivo al biasimo da parte di uno o di entrambi i genitori nei confronti dei loro figli.

La persona colpevole è un soggetto che persegue lo scopo di modificare e controllare il comportamento, gli atteggiamenti e le convinzioni altrui usando rimproveri, essendo convinta di sapere ciò che è bene e ciò che è male per gli altri.

In ambito educativo, la persona colpevolizzante produce rimproveri intensi, pervasivi e protratti, che risultano essere dannosi per chi li riceve. Per contro, lo sviluppo morale non consiste nella mera acquisizione di una serie di regole, ma è invece alimentato dalla promozione dello sviluppo delle capacità emozionali o dello sviluppo della capacità empatica.

Il genitore colpevolizzante rimprovera costantemente il figlio o la figlia, giudicando non corretti il suo comportamento, i suoi atteggiamenti, o le sue decisioni, anche se queste sono il risultato di preferenze personali. Pertanto il genitore formula considerazioni normative anche in ambiti nei quali sarebbe meglio incoraggiare l’espressione delle preferenze da parte del figlio e una costruzione autonoma della sua identità.

Perché accade questo? A causa del fatto che il genitore colpevolizzante tende a considerare i propri intenti come standard universalmente validi o quanto meno validi per la persona a cui è rivolta la critica. Questo comporta che gli intenti dell’altra persona non vengano presi in considerazione.

Quasi sempre la persona colpevolizzante si propone di cambiare l’altro, assicurandosi che questo si conformi alle sue direttive.

Il soggetto criticato paga un costo estremamente elevato in termini di autostima, fiducia nelle proprie possibilità e per ciò che attiene all’esplorazione delle proprie risorse.

Crescere in un ambiente colmo di criticismo può minare molti aspetti della vita delle persone. Come avviene per altri tipi di maltrattamento, un sistematico criticismo genitoriale non viene riconosciuto dalla persona che ne è il bersaglio, ma limita l’autostima. I bambini non hanno, così, la capacità intellettuale di mettere in discussione la veridicità del criticismo dei loro genitori. Piuttosto, essi interiorizzano la convinzione da parte dei genitori che essi non sono abbastanza bravi, che non riescono mai a fare qualcosa nel modo giusto.

Esiti negativi del criticismo genitoriale sono il perfezionismo, il bisogno di controllo e l’intolleranza verso l’errore, oltre allo sviluppo di disorientamento personale. Il soggetto criticato tende a sviluppare una dipendenza dal contesto interpersonale. Infatti, una delle conseguenze più comuni è la continua ricerca della validazione esterna. Il criticismo insegna ai bambini che la conferma del loro valore o disvalore risiede fuori da loro stessi. Le parole delle altre persone sono investite dal potere di validare o invalidare il senso della loro identità.

 

 

Riferimenti bibliografici:

  • Sassaroli, S., Ruggiero, G.M. (2010). I disturbi alimentari. Bari: Laterza.
  • Semerari, A. (1999). Psicoterapia cognitiva del paziente grave. Milano: Raffaello Cortina.

Trattamento dell’eiaculazione preoce

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L’eiaculazione precoce colpisce circa l’1-3% della popolazione, e si identifica con un’eiaculazione prima o subito dopo la penetrazione vaginale, o comunque prima che l’individuo lo desideri. Vengono tenuti in considerazione quattro fattori: il tempo, la frequenza, il vissuto soggettivo e la presenza di cause extrasessuali. Durare meno di 60 secondi è sintomo patognomico di eiaculazione precoce e la condizione deve durare almeno 6 mesi e verificarsi nel 75% delle attività sessuali. La maggior parte degli studiosi sono d’accordo nel ritenere che la causa psicologica principale sia l’incapacità di percepire il proprio livello di attivazione sessuale, non riuscendo quindi a controllare in maniera adeguata l’eiaculazione.

La terapia cognitivo-comportamentale è quella che ha avuto maggiori riscontri di efficacia. Tale percorso di cura unisce compiti mansionali, prettamente comportamentali, al cambiamento di credenze erronee riguardo il sesso e la sessualità.

Dopo un’adeguata psicoeducazione che include delle spiegazioni riguardo anche l’anatomia del proprio organo si passa alle quattro fasi di terapia mansionale promosse dai più grandi studiosi del settore contemporanei fra i quali i nostri Davide Dettore e Fabio Veglia.

Fase I: si istruisce l’uomo a masturbarsi da solo nel modo a lui abituale; quando percepisce le sensazioni che precedono il punto di non ritorno (cioè l’inizio della risposta inarrestabile di eiaculazione), che possono essere costituite da sensazioni particolari del glande o alla base del pene, egli deve fermarsi e operare la manovra della compressione finchè la sensazione di attivazione non si allenti. A questo punto attende 1 minuto preciso e poi riprende a stimolarsi; quando compaiono ancora le sensazioni, ripete la manovra di compressione e attende ancora 1 minuto esatto. Tale procedura viene ripetuta in totale 4 volte, dopodichè l’uomo può aggiungere l’orgasmo. La fase I dovrebbe essere ripetuta almeno 3 volte alla settimana, per 2 settimane. In questo periodo si dovrebbe assistere a un graduale allungamento del tempo fra uno stop e l’altro.

Fase II: in questa fase la meta è di riuscire a mantenere un elevato livello di attivazione (sempre in masturbazione da solo) senza però raggiungere l’orgasmo. Quando l’uomo raggiunge un’attivazione abbastanza elevata deve rallentare i movimenti della mano in modo da cercare di mantenere stabile a quel livello l’eccitazione sessuale. La meta è riuscire a mantenerla elevata senza eiaculare per circa 15 minuti, dopodichè l’uomo potrà lasciarsi avere un orgasmo. Contemporaneamente è possibile introdurre l’uomo al controllo del muscolo pubococcigeo (o di Kegel); in alcuni uomini la contrazione di questo muscolo inibisce l’orgasmo, in altri lo facilita. L’uomo può sperimentare quali siano gli effetti su di sé della contrazione di tale muscolo.

Fase III: tutto rimane come nella fase precedente, si aggiunge soltanto una gelatina lubrificante (idrosolubile – non la vaselina) al fine di abituare l’uomo a sensazioni sempre più simili a quelle proprie della vagina.

Fase IV: a questo punto, può essere coinvolta attivamente la partner, che in un primo momento introduce il pene dell’uomo in vagina stando in posizione soprastante e lasciando che l’uomo si abitui alle sensazioni prodotte dal proprio membro in vagina, senza però fare alcun movimento. Una volta che egli si è assuefatto a tali sensazioni, la donna inizia a muoversi lentamente e l’uomo cerca di rimanere al livello di eccitazione a cui si è abituato nelle fasi precedenti. Può dare indicazioni alla donna di muoversi più lentamente, o anche di fermarsi, nel caso in cui l’attivazione sessuale cresca troppo. In alcuni casi può pure ricorrere alla manovra della compressione per far diminuire un’eccitazione sessuale che rischia di indurre un orgasmo. Anche in questo caso, dopo 4 volte in cui è stata ripetuta la procedura start/stop, oppure dopo almeno un quarto d’ora di elevata eccitazione sessuale dell’uomo, questi può raggiungere l’orgasmo e farlo avere, se lo desidera, anche alla partner tramite procedure non penetrative inizialmente.

Questi esercizi dovrebbero favorire la comunicazione fra i partner e lo scambio di aspettative e desideri, cosicchè entrambi si possano conoscere meglio, anche rispetto a proprie preferenze per talune pratiche sessuali.

Riferimenti bibliografici:

  • Dettore, D. (2018), Trattato di psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale, Giunti.